giovedì 22 maggio 2014

27

E' dunque stato estratto il numero jolly della lotteria della mia vita.
Sapevo sarebbe arrivato prima o poi, anche se non immaginavo sarebbe stato così presto.
27.
27 giugno 2014.
Il mio ultimo giorno di scuola. Il mio ultimo giorno ad Ashiya, a Kobe, in Kansai.
27 giugno 2014, l'ultimo giorno in cui indosserò la mia divisa, in cui mi inchineró prima che inizino le lezioni.
L'ultimo giorno per dire addio a tutti i miei amici, i miei professori, i miei genitori e i miei fratelli. L'ultimo giorno in cui infilerò il bento nella borsa, in cui sentirò la campanella-carillon che annuncia i 30 secondi prima dell'inizio delle lezioni, in cui entrerò nella biblioteca di scuola.
27 giugno 2014, sará l'ultimo giorno in cui ti vedrò.
Mi é stato chiesto se avrei preferito andare a Tokyo un giorno prima per fare le cose con calma, ma io ho detto di no. Ho detto, fatemi stare un ultimo giorno alla Ashiya Gakuen.
Perché per me quella scuola ha significato tutto. Per me quella scuola è stata come una seconda pelle, un guscio, uno scrigno dei tesori.
Per andare in quella scuola ho smosso mari e monti.
Non ci riesco a credere, che lascerò la mia Ashiya Gakuen. Tutto ma non lei.
Tutto ma non voi.
Tutto.
Ma non te.

Perché ci ho lasciato troppo in quella scuola, per smettere di andarci così, da un giorno a un altro.
Ovunque guardi, c'è un ricordo, un ricordo dell'anno più bello e faticoso della mia vita.
Non ho mai vissuto così intensamente, eppure finora non me ne ero mai accorta.
Ashiya Gakuen.
Tu, con il tuo inno un po' fuori moda, con le divise che non azzeccano una stagione, con troppe, troppe scale.
Tu, con me che ballo la souran bushi scalza sul ground, che costruisco un bonsai in fondo al giardino, che suono il koto nella vecchia aula del secondo piano, che siedo sotto il gazebo mangiando un gelato.
Ashiya Gakuen, ti amo. Ti amo come si ama la casa in cui si è nati, come si ama il primo amore.
Ashiya Gakuen. Grazie.
A volte, spesso, ho pensato che avrei preferito un'altra scuola, una scuola normale, con gente più alla mano, una divisa più alla moda e con meno scale. Ma ora no.
Ora penso che non sarei potuta finire in una scuola migliore.
Che di 5 anni di superiori, vale la pena di ricordare solo quello passato da te.
Ritorno, davvero.
Anche solo per ricordare cosa è significato venire segnati ogni giorno di ricordi più indelebili del marcatore nero con cui per sbaglio ho macchiato il colletto della camicia di oliver e che non va via seppur la lavi ogni giorno (lol?!).
Mi mancherai, tu col tuo barbecue infestato di moschini, il sottopalestra troppo basso per non batterci le capocciate, le pulizie del venerdì in cui finisco sempre io a pulire la lavagna (perché sono più alta di tutti).
Mi manchi giá.
Sei la scuola più bella del mondo, Ashiya Gakuen. Ti ricorderò per sempre.
Promesso.

mercoledì 14 maggio 2014

Datemi due cerotti.

Datemi due cerotti, due cerotti belli grandi.
Uno per tapparmi la bocca, l'altro per la sbucciatura sulla nocca della mano.
Ma andiamo con ordine.
Oggi vi racconto cosa vuol dire essere me.

Sono fiera di illustrarvi una storia tutt'altro che banale: la mia.
Sí, perché mi sono resa conto che di tutte le cose che nornalmente i miei coetanei hanno fatto, me le sono fatte mancare tutte...
Rimpiazzandole con altre, forse.

Gli eventi che hanno caratterizzato ogni grande passo della mia vita sono state delle sciocche coincidenze.
Suppongo che dire così non renda l'idea, ma potrò illustrarvele un giorno a voce.
Il fatto é che è una catena durata anni, di cui ho visto il percorso solo adesso. Doveva andare così.
Per questo anche ora, sebbene non capisca che senso abbia tutto, so che sono dentro una nuova catena, o, per meglio dire, sono a metà (o forse a un terzo o un quarto, chissà) di quella di prima.
C'è un percorso finemente studiato dietro, qualcosa in cui non posso interferire.
Ma.
Non credo di essere particolarmente sensibile, a dirla tutta faccio una fatica immensa a capire la gente. Ho solo qualcosa di bizzarro e inspiegabile.
Credo di avere un'aurea strana e irregolare, che cambia continuamente e in 18 anni non ho mai trovato una sola persona con cui entrare davvero in sintonia. Forse non esiste.
Si sente parlare di estremi, di chi vede il mondo in modo troppo banale, e di chi lo vede in modo completamente stravolto.
Io il mondo più che vederlo lo guardo. E come sempre, quando si guarda davvero qualcosa, si finisce per tingerlo con il proprio colore, i propri pensieri, e non è più una cosa qualunque ma ha ormai qualcosa di nostro.
La vita ha qualcosa di mio che la rende un completo casino, con giornate oggettivamente uguali ma che nel mio cervello assumono mille sfumature diverse. L'ho fatto così mio che a volte me ne compiaccio, perché mi sorprendo di quanto a volte la forma di un sasso, il disegno che una rana traccia in aria saltando o le lancette di un orologio mi assomiglino, se pur in astratto.
Ma.
Quando il mondo non mi assomiglia, quando non lo capisco, quando le cose non vanno come vorrei, quando ci sono quelle giornate in cui niente mi rispecchia, nemmeno i sassi o i salti delle rane, mi sale un po' l'amaro.
Sì, perché quando il mondo che mi sono creata mi lascia sola, significa che sono io stessa ad avermi abbandonata.

O a essermi persa.

Lo so, dove mi sono persa stavolta. Mi sono persa in un sogno bellissimo.
E sono così stanca che un po' mi lascio sfuggire qualche parola di troppo, tant'é che tra ieri e oggi ho rischiato di litigare due volte per delle banalità.
Sono così stanca che per non mettermi ad urlargli di fronte sono dovuta scivolare via sorridendo e correre appena svoltato l'angolo, correre e inciampare e sbucciarmi le nocche delle mani.
Datemi due cerotti.
Vorrò continuare a urlare, e la sbucciatura fará ancora male, ma almeno nessuno se ne accorgerà.
Voglio smettere di litigare con Oli ogni volta che mi dice di essere felice e innamorato. Sì, perché gli voglio bene.
Voglio smettere di abbassare gli occhi e affrettare il passo ogni volta che passo vicino al mio sogno bellissimo tentando di convincermi che non esiste, non è mai esistito.
Non esisti, mi ripeto, ma lui è lì. Anzi è qui, qui dentro.

Essere me significa averlo qui dentro sempre, 24 al giorno, 7 giorni su 7. Averlo dentro e basta, perché fuori non ce l'avrò mai.

Dicono che passa e io ci credo, perché è sempre passato tutto.
Ma sono ancora sola, sola circondata da un mondo diverso dal solito tra l'altro.

La prossima settimana farò i test di metà quadrimestre, per la prima volta in tutto l'anno.
La cosa mi rende felice visto che seguo ogni lezione e prendo appunti, ma so che fallirò miseramente (hey dude, it's Japanese!).
In compenso seguire le lezioni mi ha portata a una scoperta interessante.
La professoressa di Società Contemporanea ci ha fatto disegnare un albero, e a seconda delle caratteristiche ci ha dato una descrizione quasi esatta della nostra personalità.

Allora mi è sembrato tutro chiaro, quasi banale. Nel mondo che mi sono cucita addosso, non sono io ad assomigliare al sasso, al salto della rana o alle lancette, ma il contrario.
Proprio come l'albero che ho disegnato, tutto ciò che vedo lo interpreto secondo i miei canoni.
Com'è che allora adesso non mi rispecchio più in niente? Ho cambiato canoni, li ho persi?

Ho detto spesso che il Giappone ha il potere di prendere ciò che c'è di guasto nell'anima delle persone e mescolarlo, colpirlo e sradicarlo con una forza immensa, fino a guarirti.
Che mi stia guarendo anche stavolta? Ce la farà, in appena un mese e mezzo?

Mah, sono solo i discorsi di una strampalata come me, per cui potete anche non farci caso.
Ma intanto datemi quei cerotti, e subito!

mercoledì 7 maggio 2014

Ho cercato di baciare la pioggia

La solitudine puó essere piacevole.
Ti dà quella scarica di adrenalina che ti permette di affrontare sfide che non avresti mai immaginato. La solitudine ti permette di compiacerti delle tue conquiste.
La solitudine mi ha permesso di crescere, di uscire dal bozzolo, di lanciarmi in un vuoto dopo l'altro.
Ma oggi che non riesco a dormire, la solitudine mi sta schiacciando contro il mio futon e non mi lascia respirare.
Vorrei abbracciare qualcuno. Qualsiasi persona. Basta che mi voglia bene.
Vorrei riuscire a dormire per non pensare a tante cose.
Quest'anno mi ha dato tantissime gioie e soddisfazioni, ma mi ha aperto anche delle ferite che fanno un po' male.
E dopo 8 mesi in cui sono cambiata cosí tanto, ci sono volte in cui vengo messa di fronte all'evidenza del fatto che ancora non basta. Che é solo l'inizio della trasformazione.
Ci sono volte in cui le sfide più belle sono anche le più impossibili da realizzare, e ci si ritrova con in mano un pugno di sabbia che scivola via non appena allentiamo la presa.
Ho provato a baciare la pioggia.
Sono stata così tanto sotto quel temporale cercando di baciare una cosa così inafferrabile come la pioggia, come se la si potesse cristallizzare a mezz'aria.
Non sono pazza. Tutti prima o poi cercano di baciare la pioggia.
E tutti prima o poi si ritrovano completamente bagnati, con gli occhi che bruciano e gli abiti attaccati addosso, i capelli appiccicati alle guance.
E siamo così fradici e infreddoliti che neanche abbiamo il coraggio di muoverci.
Quanto ci rimarrò, sotto questa pioggia, prima di decidermi a rientrare in casa e liberarmi faticosamente degli abiti zuppi e asciugarmi la faccia?
Un exchange è un po' anche questo. Essere tristi mentre si è felici, soli circondati da persone, bambini che si comportano da adulti.
È andare avanti spavaldi avendo paura di cadere ad ogni passo.
Innamorarsi della pioggia.

lunedì 10 marzo 2014

Se Kobe fosse un ragazzo...

Credo che le città siano come le persone, abbiano un'anima propria.
Per questo ci ritroviamo inconsapevolmente ad amare un posto piuttosto che un'altro.
È questione di feeling, di auree che si attraggono, di compatibilità d'anime.
Per questo, pur abitando a Koshien, nel punto esattamente a metà fra Osaka Umeda e Kobe Sannomiya, dove entrambe le destinazioni costano 260 yen, e si raggiungono negli stessi 13 minuti, preferisco di gran lunga montare sul treno per Sannomiya.
Mi siedo sulle poltroncine e guardo il paesaggio scorrere fuori dai finestrini, con i palazzi alti 13 piani alternati a casette basse con i tetti a spiovente laccati di verde e azzurro tutte appiccicate le una alle altre, sentendo il cuore farsi leggero leggero.
Credo che se Kobe fosse un ragazzo, ne sarei innamorata.
Non di un amore passionale come con Kyoto, né come quello "di convenienza" con Osaka.
Sono due città che amo moltissimo, ma Kobe è Kobe.
Kobe è vivace, sporca, intricata e un po' decadente. Perdersi è un istante. Ma non è un perdersi vero e proprio, quanto un lasciarsi guidare dentro un nuovo angolo, un nuovo vicolo, un nuovo tunnel stretto pieno di negozietti dell'usato, una nuova rampa di scale nascosta.
Camminare per Kobe è come camminare dentro di te.
È come afferrare la mano tesa di qualcuno che promette di portarti in un posto speciale e finisce che il posto speciale è dentro sè stessi.
Kobe è un po' sudicia e trasandata. I muri sono rigati di smog e i marciapiedi appiccicati di gomme. Le suole delle scarpe diventano nere se si cammina nella stazione della metro. A volte si sente puzza di tabacco emanata dai negozi dell'usato, le lampade delle gallerie lampeggiano e in pieno giorno finisci per trovarti in posti angusti completamente deserti e in penombra. È un posto perfetto per un romanzo.
È misteriosa. Finché non ti porta dove vuole, non capisci dove andrai a finire. È un labirinto in cui non puoi fare a meno di entrare perché è un labirinto in cui puoi affrontare il tuo passato faccia a faccia.
Se la vostra vita è un casino e non sapete da dove cominciare a sciogliere i nodi, partite da Kobe. Innamoratevi di Kobe, fatevi guidare, perdetevi, sbucate su un balcone da cui vedete il punto di partenza e poi riscendete giù nelle viscere della periferia e camminate ancora, e scendete ancora.
Quando la sera rimonto sul treno per Koshien, sento di essere felice.
Se Kobe fosse un ragazzo, sarebbe uno di quelli che non dice mai "ti amo". Sarebbe uno di quelli che ti trascinerebbe ore e ore in silenzio fino al suo angolo nascosto e introvabile, per farti capire che sei speciale.
Kobe è una città che sa amare. Sa amare come sa amare un Giapponese, in silenzio.
Amo andare a Kobe.
Con L-chan l'altro giorno siamo andate in esplorazione dei Furugiya-san, o negozi di vestiti usati, alla ricerca del nostro primo kimono. Normalmente costano sui 2000 euro, ma all'usato si trovano per poco meno di 10... sono kimono vecchissimi, di circa 100 anni.
Ho pensato che fosse una fortuna immensa... possedere un kimono di 100 anni è un'emozione meravigliosa.
Questo kimono ha visto l'apertura del Giappone all'Occidente, la modernizzazione di un intero Paese, una Guerra Mondiale, il primo bombardamento atomico della storia, un terremoto devastante, ma ha anche accompagnato qualcuno ogni anno a vedere i fiori di sakura; forse qualcuno l'ha indossato a un matrimonio, o durante la festa della maggiore età. Dalla nonna, alla mamma, alla figlia che a sua volta è diventata mamma, tutte queste donne con quali sentimenti hanno indossato tale abito?
Al pensiero di poter possedere un tale oggetto, io e L-chan eravamo così emozionate.
Siamo scivolate in ogni vicolo della città, toccato decine di drappi di seta, confrontato fantasie, colori, provato dozzine di abiti specchiandoci nelle vetrine polverose delle botteghe.
Alla fine l'abbiamo preso. L-chan uno salmone che richiama i colori del tramonto, io un kimono color giada con disegni di fiori rosa e blu. L'ho chiamato Shizu-chan, perché per me è come un racconto silenzioso di un secolo difficile e meraviglioso. Manca ancora la sottoveste e la cintura, ma va bene così. Torneremo a Kobe anche per quelle.
Parlerò più spesso di Kobe, della China Town e dei frappè con la tapioca.
Vi racconterò della sua magia, e un po' me la terrò per me, perché dovete vederla da soli.
Un bacio, Dafne.

sabato 8 marzo 2014

Carne di balena.

So che con una balena nel titolo la foto di un granchio gigante potrebbe sembrare un po' un controsenso, ma lasciatemi spiegare.
Quella è solo una foto scattata ieri durante un'uscita pazza a Namba con due amiche. Siamo andate a fare outreach, ovvero amicizia con gente arrandom.
È per inaugurare il mio primo post dopo 4 mesi!!! Yeeeeah!!!
Cercherò di caricare qualcosa quasi ogni giorno non solo con le mie esperienze ma voglio raccontarvi il Giappone attraverso i miei occhi, le mie orecchie e i miei appunti di viaggio!

Vi starete chiedendo il perché di tale titolo.
Pensando a come iniziare a riassumere gli scorsi 6 mesi in Giappone, ho capito che innanzitutto andava messa in chiaro la cosa più importante: fate tabula rasa di tutto.
Dimenticate la vostra cultura, i vostri concetti di giusto e sbagliato e azzerate il vostro punto di vista.
Qui ho imparato che anche la cosa più strana e incomprensibile ha una ragione dietro, quindi  MAI GIUDICARE.
Che c'entra la carne di balena?
Pensando a un semplice esempio, mi è tornato alla mente un discorso fatto con il professor F. tempo fa parlando della cultura culinaria del Giappone.
Cadendo sull'argomento delfini, squali e balene, ho fatto una faccia un po' inorridita che ha fatto sorridere il mio prof.
"All'estero la maggior parte delle persone storcerebbe il naso, lo so", ha aggiunto.
Io gli ho spiegato che le balene sono in via d'estinzione e che quindi sarebbe meglio smettere di ucciderle.
Un'argomentazione così animalista.
Allora F. Sensei mi ha spiegato le cose da un altro punto di vista.
I Giapponesi fino a 100 anni fa, essendo Buddhisti e credendo alla reincarnazione delle anime, non uccidevano gli animali per mangiarli. Avevano solo riso, verdure e pesce. Da dove traevano le proteine?
Con una sola balena potevano sfamare tantissime persone, la carne al contrario di altri pesci poteva essere essiccata e conservata a lungo, era poco costosa e poi riutilizzavano ogni singola parte del pesce, dalla pelle, alle ossa ai denti.
Nello stesso Oceano, gli Americani uccidevano il triplo delle balene per trarne il grasso e buttare via tutto il resto.
Ora io dico, chi siamo noi per giudicare un Giapponese che mangia carne di balena? O un cinese o un filippino che mangia un cane?
Con tutte le bistecche di manzo che ho mangiato in alcune regioni dell'India rischierei la pena di morte. E che deve pensare un musulmano che mi vede mangiare una salsiccia di maiale?
Ho fatto piangere una ragazza a scuola mia dicendole che in Italia mangiamo i conigli e i cervi.
Fare un exchange mi ha insegnato prima di tutto questo; ciò che è giusto per me è una visione talmente ristretta e oggettiva che non devo azzardare a permettermi anche solo di pensare che sia la scelta migliore. La verità è che nessuno sa la risposta più giusta, perché non esiste.
Se la mettiamo su questo piano, quando ho saputo, due mesi dopo, di aver mangiato del prosciutto di squalo la mia reazione è stata più o meno... nulla!
Aprite i vostri orizzonti, non giudicate, non scandalizzatevi. Il mondo è meraviglioso perché le ragioni dietro le differenze di ognuno sono meravigliose!

Detto questo, mettetevi comodi, si parte per il Giappone!